“Il desiderio del ritorno dev’essere profondo? Il mondo e io: spazio vuoto” (Wang Wei)
La debolezza della dottrina confuciana in seguito alla caduta dell’impero nel 220 d.C. permise al buddhismo cinese, comparso nel corso del I secolo d.C., di affermarsi nella società cinese. L’analisi interiore, la castità e la negazione della realtà erano tutti principi in opposizione al confucianesimo, che dell’ordine sociale e della pietà filiale aveva fatto i cardini del suo insegnamento. Nei tre secoli che precedettero la riunificazione dell’impero, il buddhismo, nato dagli insegnamenti del principe Siddhharta nel V secolo a.C. in India settentrionale, subì alcune trasformazioni che resero possibile la sua integrazione nel pensiero cinese, come l’inserimento nelle funzioni di preghiere per la protezione del sovrano e per i familiari defunti.
La corrente Mahayana venera una serie di reincarnazioni del Buddha, oltre ai Bodhisatva, gli illuminati che scelgono di rimanere sulla terra per aiutare gli altri, e gli Arhat, che hanno raggiunto la salvezza. Fu questa tenenza, più aperta e meno ascetica della scuola Himayana, a diffondersi in Cina. Nel nord, la chiesa buddhista riceveva finanziamenti per la costruzione di templi e monasteri, in cambio della glorificazione del sovrano. Con l’imperatrice Wu Zetian il buddhismo ascese persino brevemente a religione di stato, ma fu poi colpito duramente dalle persecuzioni, avviate verso la fine della dinastia Tang contro tutte le religioni straniere