“Soltanto l’Uno esiste: esso si è dispiegato nel cosmo intero” (Rig Veda, VIII, 58, 2)
La religiosità hindu è popolata da una miriade di divinità: secondo una tradizione, gli dei del pantheon sarebbero 33.333, o anche multipli di questo numero.
Nella generale ricezione dell’induismo da parte occidentale, il politeismo è sentito come elemento caratteristico.
A prima vista ci si trova di fronte ad una folla pressoché sterminata di dei e dee, di esseri divini e demoniaci, di intere genealogie di divinità minori e di eroi, le cui vicende personali si intrecciano sul palcoscenico del trimundio (tre sistemi planetari in cui si configura l’universo fenomenico) su di uno sfondo apparentemente irreale e senza tempo. Deva dalle sembianze umane e animali sono venerati secondo i precetti di elaborate liturgie che danno vita a suggestive forme di adorazione, comunque poco comprensibile.
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Anche il ricercatore che si avvicina all’Induismo sprovvisto di una serie di dati fondamentali, non riesce a cogliere un disegno unico nel multiforme fenomeno cui assiste, per cui rimane frastornato e finisce per descriverlo come politeismo o panteismo, quando non riduce tutto a leggenda o superstizione.
Niente tuttavia è più lontano dal vero.
Dietro questa caotica facciata esiste un’interiorità ben strutturata, un’ordine preciso di valori, fisici e metafisici, e soprattutto la coscienza di un Essere supremo, di un Dio unico Signore dell’universo.
Ciascun hindu si proclama devoto di un dio particolare che considera supremo e del quale tutte le altre figure divine sono sentite come ipostasi o manifestazioni minori.
Questa divinità somma può essere Vishnu , Krishna, Rama oppure Shiva o la Dea.
Di solito la mente occidentale ritiene di trovarsi di fronte ad una religiosità fantasiosa e caotica
Al livello popolare, la molteplicità di figure divine trova riscontro nella necessità di affrontare le difficoltà o le esigenze quotidiane. Nella storia del pensiero hindu il monismo è stato accentuato da diverse scuole filosofico-religiose, e per eccellenza dal vetanda, dove Dio può essere concepito privo di tratti personali; la stessa idea è stata espressa da grandi mistici fondatori di lunghe tradizioni di seguaci.
“Ma i possenti asura ancora intrepidi continuavano a molestare ripetutamente le schiere divine scagliando montagne contro di loro, salendo fino al cielo a migliaia...”
(Mahabharata, I, 17)
Gli esseri soprannaturali sono i deva, “celesti, dei” e gli asura, “demoni”.
I deva sorvegliano il ritmo e l’ordine del cosmo e della società, mentre gli asura prediligono la violazione, il disordine, il caos: buona parte della mitologia hindu è costituita dalle storie dei conflitti fra questi esseri. L’aspetto saliente di tali storie è che, alla sconfitta del demone, l’ordine socio-cosmico si restaura in maniera più completa e felice; per esempio, la vittoria di Rama sul demone Ravana inaugura il periodo più fulgido e perfetto della storia intera. Questo significa che anche il male svolge nel dinamismo universale una funzione necessaria e in ultima analisi benefica; chi lo rappresenta, perciò riveste un ruolo insostituibile, come quello dell’attore che in un dramma assume la parte dell’antagonista, del “cattivo”. Alla fine, anch’egli finirà per essere assolto in quanto sarà ucciso da un dio e con questo completamente purificato.
La Trimurti: Brahma, Vishnu, Shiva
L’ordine cosmico vedico è presieduto da tre divinità che si assumono la responsabilità della creazione (Brahma) del mantenimento (Vishnu) e della dissoluzione dell’universo (Shiva). Noti come guna-avatara sono i tre esseri divini che presiedono alle influenze materiali rajoguna, sattvaguna e tamoguna.
Nella vasta letteratura puranica Brahma e Shiva vengono descritti come esseri molto potenti, due grandi devoti di Vishnu, sempre impegnati al suo Servizio, nell’interesse dell’armonia cosmica.
Brahma
“Quando l’intelligenza della forma universale si manifestò separatamente, Brahma, il maestro dei Veda, entrò in essa col principio della comprensione; in questo modo gli esseri possono cogliere il significato delle cose.” ( Srimad Bhagavatam III, 6, 23 )
E’ la forma maschile del termine neutro brahman, che designa in origine l’essenza del sacrificio, l’energia spirituale dell’ Assoluto, e corrisponde allo Spirito della teologia occidentale.
Erede di Prajapati, il “Signore delle creature”, Dio creatore nei Veda, nell’induismo classico Brahma ha la funzione di mettere in moto il dispiegamento dell’universo, o meglio la sua “emanazione”. La sua vita , benché di lunghezza immensa non è eterna: la sua morte coincide con una “grande dissoluzione ” (mahapralaya) dell’universo. Successivamente, dall’ombelico di Vishnu disteso in sonno yogico spunta un fiore di loto, nel quale Brahma rinasce per dare un nuovo inizio alle cose.
Vishnu
“Tu sei la Persona originale, la fonte di tutti gli esseri celesti e degli esseri di differenti specie, il più antico, l’immutabile. O Signore, Tu non hai alcuna origine, e nessuno Ti è superiore. Tu, che sei il non-nato, hai posto nell’energia esterna il seme di tutti gli esseri viventi.” ( Srimad Bhagavatam III, 5, 50)
“Possa Vishnu, che è l’esistente, imperituro, Brahma, che è Ishvara, che è spirito... concedere a noi la comprensione, la ricchezza e la liberazione finale” (Vishnupurana)
“Colui che tutto pervade”, Dio luminoso e benevolo, regale e protettivo, rappresenta la conservazione del mondo in cui mantiene il dharma, la legge sacra su cui tutto si regge.
Quando nel mondo si verifica un declino nella giustizia, Vishnu si manifesta assumendo una forma particolare, per ristabilire il bene. Attribuiti anche ad altre figure divine, gli avatara (“discesa”) sono dieci: Matsya, il Pesce; Kurma , la Tartaruga; Varaha, il Cinghiale; Narasimba, l’Uomo-leone; Vamana, il Nano o Ragazzo; Parashurama, Rama con le scure; Rama ; Krishna; il Buddha e Kalki l’avatara che giungerà su un cavallo bianco alla fine della presente era del mondo (kali-yuga).
A Vishnu, o a uno dei suoi avatara - e segnatamente a Krishna, dal quale in diversi contesti storici non è sempre possibile distinguerlo, oppure a Rama - si indirizza la bhakti, il culto basato sulla devozione fatta di amore e fiducia.
Vishnu è chiamato con molti nomi: fra questi Narayana, “Colui che si muove nelle acque”, Keshava, “Dalle lunghe - o belle- chiome”, e Hari , il “Giallo-verde”.
“Narayana è Dio, la Persona suprema. Da lui è nato Brahma, dal quale a sua volta è nato Shiva.” (dal Varaha-purana)
Shiva
“Shiva non considera nessuno come suo parente, eppure non c’è nessuno che non abbia un legame con lui; non vede nessuno in modo favorevole o sfavorevole.”
(Srimad Bhagavatam III, 14, 26)
“Shiva è privo di attributi, di colore, di gusto, di odore, al di là della parola e del tatto, privo di qualità, immutabile, immobile” (Lingapurana)
Così come è avvenuto per Vishnu, anche Shiva è una divinità già presente nei Veda, sebbene non sia di primo piano. Egli è Rudra, “l’urlatore” imprevedibile e pericoloso dio delle oscure foreste, del sangue sacrificale, della caccia, delle epidemie che propaga con le sue frecce avvelenate.
Questo nucleo di valori rimane presente anche quando, nell’epica e nei Purana, si afferma Shiva, che è una manifestazione dell’Assoluto insieme con Brahma e Vishnu; sua infatti è la funzione di distruttore/riassorbitore del cosmo, di Signore della danza (Nataraja) attraverso la quale crea le illusorie forme del divenire e le dissolve.
E’ il “Benevolo”, supremo adepto dello yoga, archetipo di dominio totale dei sensi, modello per gran parte degli asceti itineranti dell’India anche odierna. La sua personalità si compone di contrasti: inquietante, spaventoso, il distruttore dell’universo, tuttavia egli è anche il più fascinoso e potente degli amanti, nonché perfetto padre di famiglia.
Il suo emblema nei templi è il linga, generalmente una pietra di forma fallica che fuoriesce da un basamento considerato la vulva (yoni) della dea sua consorte, la quale è poi la sua “potenza” (shakti), l’energia su cui si fonda l’operato del dio.
E’ interpretato nell’insieme e nelle sue parti, come carico di valenze metafisiche, e il suo legame con la sessualità viene negato da certe interpretazioni hindu; ma nella storia di questo simbolo non manca la riproduzione anatomicamente accurata, il che ne conferma la valenza primaria, le cui origini remote sono forse da vedere in riti della fertilità,.
In ogni caso il linga non è infisso nella yoni, ma , appunto, se ne erge al di fuori. L’immagine è di un erotismo non consumato, ma piuttosto preservato in tutta la sua integrità, come vogliono le pratiche ascetiche che consentono in questo modo di accumulare potere: è infatti proprio l’asceta colui che dispone delle tecniche per conservare e accrescere la forza erotica, colui che quindi ne è specialmente colmo.
La Dea Suprema
Nella letteratura vedica le figure divine femminili rivestono un’importanza molto marginale, mentre l’induismo più antico venera diverse dee, distinte per nome e mitologia.
A cominciare con il Devi Mahatmya (V-VII secolo) emerge alla luce dei testi la concezione di un’unica grande Dea Signora dell’universo, la quale possiede tutte le caratteristiche di onnipotenza e onnipervadenza ed esercita i ruoli di creazione, conservazione e dissoluzione del mondo che l’induismo attribuisce alla divinità somma. Essa viene chiamata semplicemente Devi, “Dea”, o Mahadevi, “Grande Dea”; può mutare nome, iconografia e mito in un’altra figura divina come Durga, Parvati, Lakshmi oppure Kali, con la quale viene di volta in volta identificata.
Dotata di solito di caratteristiche ambivalenti , di materna generosità e allo stesso tempo di sanguinaria ferocia quando è nel ruolo di guerriera che annienta i demoni nemici, concepita come trascendente e insieme immanente, essa incarna le grandi forze cosmiche: è considerata la shakti (“potenza”) suprema, la “natura” , Prakriti, da cui il mondo si evolve, e la maya, la grande illusione che vela all’uomo la realtà autentica delle cose.